Proprio in occasione della bella nascita di Eironeia come impresa (il 15 maggio: il giorno prima della fine degli Internazionali di Tennis, dove avevamo uno stand, come da foto riportate sul sito) è potuto apparire a chi mi circondava – i miei allievi e parenti, e le persone con cui lavoravo per la promozione , il marchio, la sede, i diversi programmi di “espansione” etc… – che in qualche modo io abbia “lasciato tutto”, nel senso di abbandonato tutto. Quello che invece in effetti è accaduto è che io ho (se a Dio piace, solo momentaneamente) lasciato qualcosa, per non abbandonarne un’altra (il che per contro a Dio certamente non piace) –: per la seconda volta finora nella mia vita ho cominciato un digiuno assoluto tanto di cibo e bevande, che di parole. Sta ora per compiersi il settimo giorno da quando ho smesso di mangiare, bere, parlare.
La mia preoccupazione più importante di fronte alle persone che mi conoscono, e in generale al mondo – dal momento che da un po’ esisto ufficialmente e pubblicamente come creatore di una “Scuola di Filosofia” – è allora quella di circostanziare il mio gesto e farne intendere la natura e le finalità rispetto, appunto, alla mia attività di filosofo nella quale devo render conto di quello che faccio, in quanto filosofo. Le persone che mi circondano si fidano di me, e quindi mi hanno chiesto veramente – mai polemicamente – ragione del mio gesto. Così ho deciso che la cosa migliore da fare sarebbe stata rendere pubbliche queste ragioni.
La possibilità del dubbio e della confusione risiede nel fatto che quello che faccio – che è un satyagraha a tutti gli effetti – ha come “bersaglio” non un’istituzione o un governo o l’ “opinione pubblica” bensì una singola persona che era ed è mia allieva, e che è anche la mia famiglia perché dovevamo sposarci. DIANE DUCRET ha ventuno anni, e io mi sono occupato (e tuttora lo faccio) di accudirla, per un po' come mia moglie e mia allieva, ma da un po’ ha perso ogni punto di riferimento e ogni verità. L'ho trovata perduta e abbandonata; me ne sono preso cura in modo che potesse rivivere e volare nel suo cielo... ma lei non vuole farlo. Concatena pratiche di pura distruzione contro se stessa e contro di me. Insomma vuole "prendere il volo" solo per finta. Devo dunque far qualcosa. Sarebbe utile e bello che chi è interessato all’argomento si informasse sulla natura del satyagraha, che è quello specifico tipo di lotta che Gandhi ha inaugurato, parlandone come “l’equivalente morale della guerra” (Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza Ed. Einaudi).
Ci sono diverse condizioni perché un satyagraha – che significa : “potenza della Verità, o “azione condotta in nome della Verità”… – possa dirsi tale: la più chiara ed essenziale è che il fine non sia quello di una ritorsione contro il “bersaglio”: questa lotta è un gesto d’amore nei confronti di qualcuno, in cui chi la conduce si propone di far sì che la persona cui mira ritorni a se stessa (certamente NON che, in questo caso, ritorni da me!) e si renda conto che quello che sta facendo va talmente poco bene che qualcuno è disposto a offrire la propria vita perché smetta di comportarsi così. Per il satyagrahi che prende questa decisione è meglio morire che vivere in un mondo in cui accade quello che lui si propone di far cessare.
Molti direbbero che la differenza tra un satyagraha e un ricatto morale – per esempio quello distruttivo e autodistruttivo di una tossicodipendenza o di un’anoressia, ciò che è in effetti il caso di Diane, che non ha mai (evo ahilé infine prenderne atto) lasciato dietro di sé le dipendenze profonde che minano il suo spirito - è “sottile” : ma se da una parte questo è vero, soprattutto per chi lo fa, perché occorre saper distinguere con esattezza nel proprio animo i moventi puri da quelli impuri; dall’altra non è per nulla “sottile” nel senso di vaga o indiscernibile, perché lo spettacolo a cui si assiste è chiarissimamente quello di una luminosa impresa in nome della ragione e dell’amore, e non certo quello di una patologia dura e impietosa. Con in più una precisazione: la nostra società è certamente da molto tempo peggio che gravemente malata (dai tempi di Gandhi ha solo peggiorato quanto a presenza di veglia e coscienza critica) e questo si vede per esempio nel fatto che qualsiasi lotta dello spirito, da qualunque parte avvenga, spaventa talmente tanto che viene immediatamente relegata nel novero delle patologie: così capita che tante persone che assistono a, o direttamente subiscono ingiustizie intollerabili, riescono loro stesse a dar voce al male che di conseguenza sentono, solo “ammalandosi” di droga, di alcol, o appunto di anoressia: non avendo messo a punto un apparato di comprensione e analisi sufficientemente potente infatti, l’unica forma di azione spirituale che riescono a compiere – in questo vuoto spinto in cui ci troviamo, nell'abominio di questo deserto spirituale che è il nostro tempo – è quella di privarsi solo distruttivamente, e non anche costruttivamente, di cibo e salute. Tanti drogati, e tanti malati “psichiatrici” sono dei satyagrahi inascoltati, in primo luogo da se stessi, e l’unico modo che hanno per mostrare al mondo come sono stati abbandonati, è abbandonarsi loro stessi in modo (finalmente) chiaro e visibile a tutti.
Un’altra condizione per riconoscere se si sta di fronte a un satyagraha o meno è – al contrario dunque, di quello che si tenderebbe a credere – quella di vedere se uno potrebbe compierlo, appunto, “contro” una persona intima (la propria moglie, il proprio figlio…) che gli è effettivamente cara, e a cui cerca così di riaprire il cuore e la mente. Se è difficile far capire che si vuole il bene del capo di un governo tirannico se si digiuna avendo lui come “bersaglio”, è molto facile invece rendersi conto di cosa si sta facendo se l’obiettivo è una persona che il satyagrahi ama teneramente: una vendetta e una ritorsione vogliono danneggiare, mentre un’azione come la mia vuol salvare, e la sofferenza che mi infliggo è volta a curare e non a far ammalare.
Oltre al fatto che il suo potersi dirigere a una persona intima e univocamente amata è un criterio di discernimento essenziale per individuare il carattere della lotta intrapresa da chi digiuna o comunque si sottopone a grandi sacrifici, c’è che il satyagraha è essenzialmente diretto alla pecora smarrita: il “buon pastore” dà la vita per le sue pecore, ed è disposto a lasciare tutte le altre novantanove per occuparsi di recuperare quell’unica caduta nel pozzo. Alla mente affaristica ed economica di molti questo appare assurdo: ma da un lato è evidente a chiunque che se un bimbo sta affogando devo lasciare qualunque cosa immediatamente per tuffarmi a salvarlo, mentre dall’altro è vero tanto apriori che storicamente che l’economia e gli affari esistono dentro la polis, la quale fonda se stessa interamente e integralmente su valori del tutto “antieconomici”, ma tant’è: il fondamento di qualcosa ha sempre un aspetto contrario alla cosa stessa.
Un altro carattere di questa guerra è quella della fonte effettiva della decisione di intraprenderla: “Perché ora, perché così? Perché non aspettare?” Di fronte a un bimbo che affoga queste domande decadono, perché il corpo si vede e le urla si sentono: mentre l’anima non si vede, e un’anima che affoga e urla non fa rumore (per questo tra l’altro sto in silenzio). E allora io mi devo assumere la responsabilità di far qualcosa per recuperare una situazione che non si vede e non si sente. Ora: la fonte della decisione è in questi casi univocamente il proprio cuore. Non c’è nulla da fare: per salvare una persona smarrita nell’anima si deve sapere col proprio cuore cosa si deve fare e quando. Per questo è così difficile al presente fare cose di questo tipo: non perché nessuno sappia che cosa è il cuore dell’uomo, ma perché mentre senza pudore infestiamo il mondo di quattordicenni seminude e violentate nel corpo e nella mente (parlo delle "top model" consenzienti grazie all'accordo di mamma e papà), è ora incredibilmente proprio il cuore che fa vergogna: nessuno ha il coraggio di dire che qualcosa non va fatto perché il cuore protesta. Ma i tempi cambiano, e l’epoca attuale è già passata: il fatto che un filosofo faccia questo discorso “gridando sui tetti” quello che gli hanno “detto all’orecchio” significa già questo trapasso storico.
Una cosa del resto rende ai miei occhi il satyagraha particolarmente efficace: e cioè che chi lo fa abbia già acquistato del credito morale in merito alla sua onestà e alla purezza generale dei suoi intenti e della sua ricerca della verità. Sarà allora più facile liberarsi dei dubbi appena evocati, in merito alla natura ritorsiva piuttosto che amorosa di quello che questa persona sta facendo. Mi considero allora più che fortunato – attiene al mio destino più che alla “sorte” – di disporre anche di questa arma (la mia affidabilità razionale e morale come filosofo e pedagogo) di fronte agli occhi di chi mi circonda, e in primis di Diane).
Ho dunque cominciato il digiuno (il 15 maggio sera) quando ho sentito una sofferenza mortale nel mio cuore. La mia allieva più importante (Diane sarà un grande filosofo, fondamentale per quest’epoca, e che ho cresciuto come tale) ma anche mia figlia e la mia promessa sposa, si sta perdendo, come Pinocchio. Esattamente come Pinocchio (questa è l’epoca di Pinocchio). E Pinocchio è il monello dal cuore d’oro che scappa da scuola… Non è grave? Certo che è grave: è gravissimo, e infatti Geppetto finisce nella bocca del Pescecane, e la Fatina muore di crepacuore. La mia fortuna è appunto che il Filosofo è come la Fatina: il suo cuore si spezza, ma la sua mente ha sufficiente lucidità da saperlo, e dunque saperlo dire e comunicare a Pinocchio e al mondo prima di mostrare, semplicemente – come capita in genere – una morte già avvenuta. È solo davanti al cuore infranto della Fatina, e a Geppetto solo soletto nella pancia del pesce, che Pinocchio riprende un cammino sensato: chiunque altro si limiti a discettare su bene e male, fa – a ragione – la fine del Grillo Parlante.
Nella mia lotta c’è dunque – in più – il mio dovere verso la Verità: la verità del mio cuore è infatti una verità che appartiene al mondo, come tutte le altre. Se la tacessi perché “è mia”, sarei assurdamente discriminatorio e in più ipocrita, perché starei solo difendendo la mia immagine. Mi sono fatto tanti problemi di coscienza: se fosse il caso di dar voce al “mio” cuore nel momento in cui la mia impresa filosofica esiste pubblicamente, e tante persone ci credono e contano su di me. Ma mi sono detto – e questa è la cosa più seria e profonda che credo – che dire il “mio” cuore è sbagliato: un bimbo affoga, e occorre far qualcosa a prescindere da chi sia il bimbo: far tacere il “mio” cuore in nome di un’impresa (Eironeia) che ha come fine essenziale quello di far sì che le persone sappiano lottare per quello in cui credono, è aver messo a tacere, di Eironeia, proprio il centro del suo più vero e vivo cuore pulsante.
Le persone che mi circondano – e in generale la mente di chiunque venga a contatto con la mia decisione e le sue motivazioni – sono tutte d’accordo con me, e mi sostengono: tuttavia c’è sempre una questione che viene sollevata, ed è naturale perché non solo compare con sopra la scritta luminosa e cubitale “possibile via d’uscita”, ma lo fa in quanto in sé contiene uno dei più importanti motivi di equivoco intorno al problema della crescita, dell’educazione, e dell’ “errore” che io mi sono trovato davanti agli occhi come filosofo, insegnante e pedagogo tanto di casi normali che “difficili”.
Mi viene insomma detto più o meno: “Ma in fondo Diane è piccola… deve crescere, fare esperienza: la vita le insegnerà cosa conta e cosa non conta” etc. L’ultima volta che la cosa è uscita fuori in questo modo, eravamo io e Adriana (ADRIANA STRINI per visualizzarla vedi le foto nel sito sullo stand agli Internazionali): e dato che io non parlo, il dialogo si è svolto con carta e penna: io ponevo delle domande per scritto al SI-NO, e Adriana rispondeva; in altri casi invece lei stessa faceva delle osservazioni, e io le trascrivevo. Queella che segue è dunque una trascrizione esatta del nostro Dialogo sull'Educazione.
ADRIANA - Eduardo, Diane è piccola... hai aspettato tanto… non puoi aspettare ancora che cresca? il tempo e la vita faranno il loro lavoro”.
EDUARDO – Adriana, le parole e i concetti guidano le azioni concrete, che determinano la vita delle persone, quindi le parole e i concetti devono avere un senso. Prendiamo allora l’espressione “Diane è piccola”. “Piccola” significa che un bimbo di quattro anni è più piccolo di uno di otto ed entrambi sono più piccoli di un ragazzo di venticinque. Questo significa “piccolo”. D’accordo?
– Si
– Prendiamo allora un “piccolo”: uno che certamente è piccolo, perché qui la “piccolezza” di Diane è una faccenda scivolosa, e materia di dubbio nella mente di chiunque si esprima così: non è una piccolezza letterale ed evidente come quella del bimbo. Sei d’accordo?
– Si
– Bene. Prendiamo allora un bimbo di otto anni: è “piccolo”?
– Si
– Il bimbo di otto anni vede che la mamma è malata, e il suo incarico – gli dicono di far così – è di portarle da bere. Ci aspettiamo che lo faccia?
– Si, certo.
– Voglio dire: è troppo piccolo per farlo, o per chiederglielo? Tu glie lo chiederesti?
– Io, certo.
– Però pensaci bene: “siccome” è piccolo, noi potremmo immaginarci che questi suoi otto anni facciano sì che lui si rifiuti di portare l’acqua alla mamma…per esempio resta lì bloccato davanti al lettone, si mette paura, punta i piedi, si mette a piangere…
– Si… certo: può accadere.
– Ma adesso facciamo attenzione: un bimbo di otto anni – un “piccolo” – è a causa dei suoi otto anni che si rifiuta di portare da bere alla mamma malata?
– Bé… sì.
– No: pensaci bene: tu hai detto che glie lo chiederesti, nonostante i suoi otto anni: anzi, credo che proprio per quello gli diresti “vai dalla mamma e portale da bere”: se non lo fa perché fa i capricci, penso che allora gli diresti di farlo senza far troppe storie; mentre se vedi che è turbato gli parleresti, cercheresti di capire. Insomma in tutti questi casi ragioneresti implicitamente così: alla sua età deve saper portare da bere alla mamma malata, se non lo fa c’è un problema…
– Sì, d’accordo
– Dunque ti confondevi: l’immagine del bimbo e della sua piccolezza confonde la mente polarizzandola su di sé: non è a causa degli otto anni che il bimbo non porta l’acqua, ma per una sua fragilità, o per capricci: cose che certamente possono prendere i “piccoli”: ma come difetti da eliminare con l’educazione, o come problemi da risolvere con un impegno più serio approfondito.
– Va bene.
– Ora: un bimbo di otto anni – un piccolo – ha un blocco talmente potente che non gli è possibile portare da bere alla mamma. È impossibile: la mamma può anche morire di sete. Ne concludiamo che… è piccolo?
– No: ne concludiamo che ha un serio problema.
– … un problema che può prendere i “piccoli”: ma che appunto per questo deve essere affrontato e curato/educato.
– Sì, direi di sì.
– Dunque secondo te che diremo: “È piccolo… crescerà”?
– Bè no: che “cresca” è comunque sicuro: ma certo il problema resta lì abbandonato a se stesso…
– Bene: quindi non diremo: “è piccolo e crescerà” ma piuttosto “Ha una malattia dei piccoli, e bisogna curarlo come tale… altrimenti cresce male, perché con lui cresce anche la malattia”.
– Sì, diremo così.
– Stiamo allora dicendo che il “tempo” non aggiusta tutto, anzi, non aggiusta un bel niente, preso così, nudo, crudo e vuoto, e privo di azioni che noi vi compiamo. Perché così come è il tempo fa crescere tanto i piccoli malati (e dunque le malattie) che i piccoli sani…
– Già.
– Con questa precisazione di non poco momento decidiamo allora di sbarazzarci della vacuità logica e tautologica “i piccoli crescono”, perché in realtà quello che abbiamo visto è che sotto di essa risuona la verità che “i piccoli malati devono essere curati perché altrimenti crescono male; e se a volte crescendo si guarisce è perché è sopravvenuto qualcosa di terapeutico, che però non sta nel semplice e vuoto fatto di crescere”.
– Va bene.
– … allora ci dirigiamo dal piccolo, per far qualcosa… ma il piccolo si rifiuta con altrettanta assolutezza di prendere la medicina. Decidiamo allora che la prenderà quando sarà grande…
– MA NO!
– E certo che no: qualunque genitore sa che è “NO: ADESSO TI PRENDI LA MEDICINA”.
– E direi.
– Bene, acquisito questo, torniamo a Diane. Che, come tu dici è “piccola”: facciamo otto anni?
– Eh eh… bella questione: Diane ha quasi ventidue anni e gira il mondo… anche se comunque “piccola” vuol dire quello che abbiamo detto. Dico questo: Diane certamente si sente piccola: è atterrita di per sé, ed è effettivamente rimasta piccola e immatura rispetto a certe cose che le succedono…
– Bene: ma noi abbiamo detto che il bimbo di otto anni non è “troppo piccolo” per portare l’acqua alla mamma… non abbiamo detto che è immaturo…
– No: abbiamo detto piuttosto che se non lo fa c’ha un problema: è un piccolo malato. Quindi la tua affermazione: “Diane è troppo piccola per quello che le succede” di nuovo non ha senso. – È vero… ma mi è difficilissimo da focalizzare…
– Lo capisco: si tratta del più grosso equivoco sulla crescita e la responsabilità che in quest’epoca appesta ogni sistema educativo: diciamo “piccolo” per dire malato, ma non curiamo nessuno in nome del fatto che siccome… è piccolo, crescerà. La mente slitta… e slitta la mia Diane. - Insomma, io voglio dire che Diane è terrorizzata… e come quel bimbo è terrorizzata dalla “mamma” che sta male, e cioè da te che digiuni: però è vero che anche se tu stessi male veramente, lei sarebbe altrettanto bloccata e non ti porterebbe da bere… Diane è bloccata e basta: e come si vede, ora come la volta scorsa…
– Appunto: ma da cosa è terrorizzata Diane? Dice forse che io sono un mostro orrendo? – No: dice che l’hai fatta vivere, l’hai nutrita ed educata… e che grazie a te è entrata nel mondo e ora vola…
– Ma non dice solo questo…
– Vero: Diane è ambivalente: a volte ce l’ha con te.
– Lo so bene, ma ora dimmi: Diane possiede o no di me – al di sotto della sua ambivalenza – un’immagine di riferimento unico che mi rappresenti senza ambiguità: Diane sa o non sa se io sono un mostro?
– No: Diane lo sa che non sei un mostro: lo sa e lo dice, e tutti sanno che lo sa, e lei pure. Anzi Diane sa che sei quello che lotta contro i suoi mostri.
– È vero: per questo sono così gravemente preoccupato: perché Diane è preda dei mostri che insieme abbiamo combattuto e che speravo che avessimo vinto. Mentre con nettezza e distinzione vedo che ne è di nuovo vittima, dopo due anni che ci siamo separati perché lei vivesse, e gioisse, e volasse…
Ma riprendiamo: Diane-piccola-ambivalente-terrorizzata non mi porta acqua: né che io stia male ordinariamente, né che mi dia la fame e la sete per smuoverle il cuore.
- Già.
- …ma un “piccolo” porta acqua a chi è malato…
- Sì
- …e se non lo fa, è lui malato: non piccolo: che è piccolo già lo sapevamo: è piccolo, e malato.
- Sì
- Torniamo allora alla frase: “Diane è troppo piccola per quello che le succede”. Si è detto che nessuno è troppo piccolo per portare acqua alla mamma. Anche a cinque anni, il bimbo paralizzato davanti al lettone di malattia (o di morte) va educato a farlo.
- Si, certo.
- Mi dici allora che vuol dire “troppo piccola per quello che le succede”?
- … non vuol dire nulla. “Troppo piccola” deve essere sostituito con “Piccola malata/capricciosa, da educare/curare”.
- Bene: il punto nel nostro caso è questo: che io per me sono sano – altrimenti non starei così dopo sette giorni di digiuno stretto: e per fortuna, perché se fossi malato Diane comunque non farebbe nulla e saremmo entrambi perduti.
- Già…
- … d’altra parte, tanto io non sono “malato” , tanto Diane non è “piccola”. Io sono un sanissimo che si dà fame e sete sine die, e lei è una splendida ventunenne che gira il mondo con grandi successi. Questo significa che NESSUNO le dirà “curati di Eduardo perché stai soffocando nel terrore tutto quello che siete stati e che vi lega”. Nessuno glie lo dirà, perché Diane…è grande.
- Eh già…
- D’altra parte, chi comunque la pensa così, dirà di per suo che Diane… è piccola!… senza però concluderne che se è piccola, allora va educata… e perché non si conclude così? Ma perché è grande! Di una persona in questa situazione di scacco logico-metafisico (milioni e milioni di persone sono torturate da questo scacco logico-metafisico, nel quale vengono abbandonate alla morte e alla solitudine) si dice: la vita le insegnerà… imparerà dai suoi errori.
- Sì…
- Ora: in che senso Diane “è piccola”? Diane è piccola come milioni di suoi coetanei abbandonati a se stessi: è piccola perché ha i terrori terribili di un bimbo piccolo, perché è rimasta a paure terrificanti di cantine buie, abbandoni, molestie… per questo e in questo è “piccola”..; e cioè è terrorizzata come solo un bimbo piccolo può esserlo. Che allora di conseguenza si attacchi a me per vivere e crescere, e poi mi odii perché, come è naturale che sia, deve distaccarsi, anche questo è comprensibile. Diane è “piccola”, come un bimbo abbandonato è piccolo.
- Si, Eduardo, è proprio così…
- Quindi la frase “Diane è piccola, deve crescere” è una frase che in verità sta per “Diane ha il male di un bimbo malato: bisogna curare il bimbo malato, altrimenti cresce male”.
- Si, certo.
- …ma Diane ha ventun anni e odia (ambivalente) il suo educatore/sposo, che sono io. E oltre me non c’è nessuno che sappia dire: Diane è piccola, e allora va educata. Ci ho provato, ma il mondo è stato più forte di me. Ora è l’ultima battaglia: la vedremo. Il punto è che in questo mondo per chiunque è normale enunciare le due assurdità logiche: A) “È piccola… deve fare come le pare , così cresce) e B) È piccola, è normale che fugga via e si sottragga e fugga a qualsiasi autorità, educatore, e legame affettivo vero e profondo.
- Già…
- Ora consideriamo meglio la concezione-via d’uscita: “È piccola, deve fare i suoi errori, affrontare la vita, così cresce: imparerà dalla vita”. In effetti questa frase significa solo che ci sono due insegnanti possibili:
A) A scuola, l’educatore con la sua lavagna.
B) Nella vita, le conseguenze sgradevoli delle proprie azioni
L’educatore infatti, è solo colui che sa tenere davanti agli occhi dell’allievo – in un perimetro di visibilità chiara e distinta, come per esempio una lavagna – le conseguenze sgradevoli delle tue azioni (un segnaccio sul quaderno, un brutto voto, una parola di richiamo…). Ora: secondo te qual è la lavagna nella quale Diane, che ha scelto “la vita” e “il tempo” come scuola, può vedere con chiarezza e distinzione le conseguenze sgradevoli dei suoi errori?
- Fammi capire meglio…
- Voglio dire questo: “la scuola della vita” non è una scuola strutturalmente diversa dalla scuola con i banchi e la lavagna: d’altra parte i banchi, oltre a stare a scuola, stanno anche nella vita: non si esce dalla “vita” per andare a scuola.
- Che significa che la struttura è la stessa?
- Questo: che a scuola degli oggetti ordinari vengono portati in un perimetro (la lavagna, il quaderno, il laboratorio, le parole dell’insegnante) in cui se ne distilla la presenza rispetto al resto: e ai quali per questo si fa attenzione e ci si concentra, e così si possono imparare delle cose su tali oggetti. Quando invece siamo nella “scuola della vita”, accade solo che non c’è l’orario, il professore e il cancellino, né una lavagna esplicitamente presa come tale: ma quando – come si dice – “andiamo a sbattere” nelle “conseguenze” di quello che facciamo, quello che in realtà accade (dato che di “conseguenze” delle nostre azioni ce ne sono infinite) è che intorno a un certo evento – che magari, scopriamo solo allora, si è presentato mille volte, senza che ce ne accorgessimo – compare (o: la nostra mente traccia) un perimetro, una lavagna invisibile con la funzione di mettere in risalto, tra le infinite cose che ci sono nel mondo e le infinite conseguenze delle nostre azioni, proprio quella cosa lì, con tutto il seguito di premesse e conseguenze negative. Insomma dentro la “lavagna invisibile” presente davanti alla nostra mente, si traccia un vero e proprio disegno che si staglia su tutto il resto… Per questo noi vi dirigiamo la nostra attenzione, e possiamo imparare.
Quindi è per questo che dico che la “scuola della vita” e “la scuola con i banchi e la lavagna” hanno la stessa struttura: e l’idea che “il tempo” o “la vita” come tali, nudi e crudi possano insegnare qualcosa, è come pensare che posso andare a scuola alla lezione di matematica con occhi e orecchie tappati, e imparare lo stesso per il solo fatto che ho passato un’ora lì.
- In effetti io ho sempre pensato “e dài, e dài, a forza di sbatterci il muso, all’ennesima volta capisci…”
- Si ma appunto: io ti rispondo che “capire” significa univocamente che a un certo punto compare una lavagna intorno all’errore che hai reiterato, e questa lavagna lo rende visibile, a prescindere dal numero di volte che l’hai compiuto. In più: uno ripete senza affatto sapere che sta “ripetendo”: altrimenti smetterebbe: è solo dopo – all’apparire della lavagna – che ci si accorge che si trattava di una ripetizione dell’identico: e questo perché non hai mai davanti agli occhi la situazione ripetuta nella sua chiara e distinta identità: non hai davanti alla tua mente la verità distillata di quello che hai fatto, e dunque non lo riconosci… Insomma, se uno ripete fino a “n” volte, non lo sa mica che sta ripetendo: è solo quando compare la lavagna intorno a quelle azioni fino ad allora non riconosciute come “la stessa” che uno può infine dire e rendersi conto che ha “ripetuto”: ma è a post, ed è simultaneo alla comparsa della “lavagna invisibile”.
- Capisco…
- Per il resto, la “vita” e “il tempo” sono solo una caotica mescolanza di cose confuse, e di dolore non avvertito…
- Sì, sono d’accordo, soprattutto sul dolore non sentito…
- E infatti la lavagna e il dolore che non sapevamo di sentire, compaiono insieme…
E allora: su quale “lavagna” Diane – 21 anni bella e francese, proiettata nel mondo e nella vita, con tutti che dicono “è piccola” ma nessuno che ne conclude “…dunque va educata” - … su quale lavagna, dico Diane può vedere, chiare e distinte, le conseguenze delle sue azioni?
- Ma…su nessuna… Nel mondo non ci sono lavagne… È vero tutto quello che dici, che cioè è necessaria una lavagna invisibile per isolare l’errore e identificarlo nel suo ripetersi, ma…resta che le lavagne, nel mondo… non ci sono, o meglio… compaiono dal nulla… Non so.
- Sblocca la tua mente: lo hai appena detto, lo stai dicendo tu, e dici di non saperlo: “le lavagne nel mondo non ci sono… compaiono dal nulla…”. E invece le lavagne a scuola “ci sono”? E da dove sono arrivate? E le scuole? Da dove sono comparse? Il punto è che è proprio così! Lo dici tu! Le lavagne, tutte le lavagne, sono comparse a un certo punto: a un certo punto il piccolo cresce, il malato guarisce, il bimbo nasce, l’uomo muore… e le lavagne compaiono! E così Pinocchio, finalmente, va a scuola…
- È vero… Ma appunto resta il fatto che Pinocchio non vuole andare a scuola, che il piccolo non vuole crescere, il malato non vuole guarire…
- L’uomo non vuol morire… - Eh… ma insomma.... come può “comparire” una lavagna davanti a Pinocchio, se Pinocchio proprio non vuole ascoltare e sta fuggendo da qualsiasi lavagna, visibile o invisibile che sia?
- Hai colto il punto: Pinocchio non ascolta, ed è per questo che non vede “lavagne”, ma solo un caos di cose confuse. Deve ascoltare, per vedere il perimetro invisibile intorno alle proprie esperienze (e viceversa: le proprie esperienze che selezionano un perimetro che le staglia sullo sfondo indefinito del mondo…). Quando comincia ad ascoltare, nel mondo non fanno altro che comparire lavagne…
- E come si fa a far ascoltare Pinocchio?
- Mettendo una lavagna?…
- Eh sì! Così Pinocchio va a scuola! Ma la conosci la storia? Pinocchio è scappato da scuola! Che fai? Lo ricorri con la lavagna? Chi riesce a far sì che Pinocchio si stoppi e ascolti? Il maestro? Il Grillo Parlante?…
- No: la Fatina… o meglio… la tomba della Fatina morta di crepacuore perché il suo Pinocchio era scappato via…
- Eh già: questo è il punto: le lavagne compaiono perché qualcuno parla al nostro cuore, e gli parla con un’insistenza sufficiente ad essere, infine, ascoltata.
Ora, Diane è “grande” e io “sto bene” : ma la verità è che Diane è piccola-e-terrorizzata e io muoio di crepacuore perché sono la sua Fatina. Solo che nessuno è disposto a dire la verità (come Pinocchio): e cioè che i piccoli vanno amati, curati, ed educati, mentre i grandi possono prendersi il crepacuore. E così abbiamo tanti piccoli abbandonati e tanti grandi senza cuore: perché un grande senza cuore è solo un bimbo che è stato abbandonato. Ma io sono un filosofo, e la verità è il mio mestiere, ed è mio compito (è mio dovere) dirla: ovunque la trovi, a cominciare – naturalmente – dal mio cuore. Altrimenti, che lavagna ci metto dentro Eironeia?
Per questo faccio il satyagraha per la mia Diane: perché così le compare davanti la lavagna da cui fugge terrorizzata ormai da troppo tempo.