Galileo Galilei

Cosmogonia e dinamogenesi: kinema e kinesis in Galileo

Definizione cosmica e topica del Moto rettilineo

Però, sospendendo per ora il progresso d'Aristotile, il quale a suo tempo ripiglieremo e partitamente esamineremo, dico che, delle cose da esso dette sin qui, convengo seco ed ammetto che il mondo sia corpo dotato di tutte le dimensioni, e però perfettissimo; ed aggiungo, che come tale ei sia necessariamente ordinatissimo, cioè di parti con sommo e perfettissimo ordine tra di loro disposte: il quale assunto non credo che sia per esser negato né da voi né da altri.
SIMP. E chi volete voi che lo neghi? La prima cosa, egli è d'Aristotile stesso; e poi, la sua denominazione non par che sia presa d'altronde, che dall'ordine che egli perfettamente contiene.

SALV. Stabilito dunque cotal principio, si può immediatamente concludere che, se i corpi integrali del mondo devono esser di lor natura mobili, è impossibile che i movimenti loro siano retti, o altri che circolari: e la ragione è assai facile e manifesta. Imperocché quello che si muove di moto retto, muta luogo; e continuando di muoversi, si va piú e piú sempre allontanando dal termine ond'ei si partí e da tutti i luoghi per i quali successivamente ei va passando; e se tal moto naturalmente se gli conviene, adunque egli da principio non era nel luogo suo naturale, e però non erano le parti del mondo con ordine perfetto disposte: ma noi supponghiamo, quelle esser perfettamente ordinate: adunque, come tali, è impossibile che abbiano da natura di mutar luogo, ed in conseguenza di muoversi di moto retto. In oltre, essendo il moto retto di sua natura infinito, perché infinita e indeterminata è la linea retta, è impossibile che mobile alcuno abbia da natura principio di muoversi per linea retta, cioè verso dove è impossibile di arrivare, non vi essendo termine prefinito; e la natura, come ben dice Aristotile medesmo, non intraprende a fare quello che non può esser fatto, né intraprende a muovere dove è impossibile a pervenire.

Definizione cosmogonica del Moto rettilineo e accelerato

E se pur alcuno dicesse, che se bene la linea retta, ed in conseguenza il moto per essa, è produttibile in infinito, cioè interminato, tuttavia però la natura, per cosí dire, arbitrariamente gli ha assegnati alcuni termini, e dato naturali instinti a' suoi corpi naturali di muoversi a quelli, io risponderò che ciò per avventura si potrebbe favoleggiare che fusse avvenuto del primo caos , dove confusamente ed inordinatamente andavano indistinte materie vagando, per le quali ordinare la natura molto acconciamente si fusse servita de i movimenti retti, i quali, sí come movendo i corpi ben costituiti gli disordinano, cosí sono acconci a ben ordinare i pravamente disposti; ma dopo l'ottima distribuzione e collocazione è impossibile che in loro resti naturale inclinazione di piú muoversi di moto retto, dal quale ora solo ne seguirebbe il rimuoversi dal proprio e natural luogo, cioè il disordinarsi.

Possiamo dunque dire, il moto retto servire a condur le materie per fabbricar l'opera, ma fabbricata ch'ell'è, o restare immobile, o, se mobile, muoversi solo circolarmente; se però noi non volessimo dir con Platone, che anco i corpi mondani, dopo l'essere stati fabbricati e del tutto stabiliti, furon per alcun tempo dal suo Fattore mossi di moto retto, ma che dopo l'esser pervenuti in certi e determinati luoghi, furon rivolti a uno a uno in giro, passando dal moto retto al circolare, dove poi si son mantenuti e tuttavia si conservano: pensiero altissimo e degno ben di Platone, intorno al quale mi sovviene aver sentito discorrere il nostro comune amico Accademico Linceo.

E se ben mi ricorda, il discorso fu tale.

Ogni corpo costituito per qualsivoglia causa in istato di quiete, ma che per sua natura sia mobile, posto in libertà si moverà, tutta volta però ch'egli abbia da natura inclinazione a qualche luogo particolare; ché quando e' fusse indifferente a tutti, resterebbe nella sua quiete, non avendo maggior ragione di muoversi a questo che a quello. Dall'aver questa inclinazione ne nasce necessariamente che egli nel suo moto si anderà continuamente accelerando; e cominciando con moto tardissimo, non acquisterà grado alcuno di velocità, che prima e' non sia passato per tutti i gradi di velocità minori, o vogliamo dire di tardità maggiori: perché, partendosi dallo stato della quiete (che è il grado di infinita tardità di moto), non ci è ragione nissuna per la quale e' debba entrare in un tal determinato grado di velocità, prima che entrare in un minore, ed in un altro ancor minore prima che in quello ; anzi par molto ben ragionevole passar prima per i gradi piú vicini a quello donde ei si parte, e da quelli a i piú remoti; ma il grado di dove il mobile piglia a muoversi è quello della somma tardità, cioè della quiete.
Ora, questa accelerazion di moto non si farà se non quando il mobile nel muoversi acquista; né altro è l'acquisto suo se non l'avvicinarsi al luogo desiderato, cioè dove l'inclinazion naturale lo tira; e là si condurrà egli per la piú breve, cioè per linea retta. Possiamo dunque ragionevolmente dire che la natura, per conferire in un mobile, prima costituito in quiete, una determinata velocità, si serva del farlo muover, per alcun tempo e per qualche spazio, di moto retto. Stante questo discorso, figuriamoci aver Iddio creato il corpo, verbigrazia, di Giove, al quale abbia determinato di voler conferire una tal velocità, la quale egli poi debba conservar perpetuamente uniforme: potremo con Platone dire che gli desse di muoversi da principio di moto retto ed accelerato, e che poi, giunto a quel tal grado di velocità, convertisse il suo moto retto in circolare, del quale poi la velocità naturalmente convien esser uniforme.

Il Piano Inclinato e la Ragion Sufficiente

SAGR. Io sento con gran gusto questo discorso, e maggiore credo che sarà doppo che mi abbiate rimossa una difficultà: la quale è, che io non resto ben capace come di necessità convenga che un mobile, partendosi dalla quiete ed entrando in un moto al quale egli abbia inclinazion naturale, passi per tutti i gradi di tardità precedenti, che sono tra qualsivoglia segnato grado di velocità e lo stato di quiete, li quali gradi sono infiniti; sí che non abbia potuto la natura contribuire al corpo di Giove, subito creato, il suo moto circolare, con tale e tanta velocità.
SALV. Io non ho detto, né ardirei di dire, che alla natura e a Dio fusse impossibile il conferir quella velocità, che voi dite, immediatamente; ma dirò bene che de facto la natura non lo fa; talché il farlo verrebbe ad esser operazione fuora del corso naturale e però miracolosa. [Muovasi con qual si voglia velocità qual si sia poderosissimo mobile, ed incontri qual si voglia corpo costituito in quiete, ben che debolissimo e di minima resistenza; quel mobile, incontrandolo, già mai non gli conferirà immediatamente la sua velocità: segno evidente di che ne è il sentirsi il suono della percossa, il quale non si sentirebbe, o per dir meglio non sarebbe, se il corpo che stava in quiete ricevesse, nell'arrivo del mobile, la medesima velocità di quello.]
SAGR. Adunque voi credete che un sasso, partendosi dalla quiete, ed entrando nel suo moto naturale verso il centro della Terra, passi per tutti i gradi di tardità inferiori a qualsivoglia grado di velocità? SALV. Credolo, anzi ne son sicuro, e sicuro con tanta certezza, che posso renderne sicuro voi ancora. SAGR. Quando in tutto il ragionamento d'oggi io non guadagnassi altro che una tal cognizione, me lo reputerei per un gran capitale.

SALV. Per quanto mi par di comprendere dal vostro ragionare, gran parte della vostra difficultà consiste in quel dover passare in un tempo, ed anco brevissimo, per quelli infiniti gradi di tardità precedenti a qual si sia velocità acquistata dal mobile in quel tal tempo: e però, prima che venire ad altro, cercherò di rimovervi questo scrupolo; che doverà esser agevol cosa, mentre io vi replico che il mobile passa per i detti gradi, ma il passaggio è fatto senza dimorare in veruno, talché, non ricercando il passaggio piú di un solo instante di tempo, e contenendo qualsivoglia piccol tempo infiniti instanti, non ce ne mancheranno per assegnare il suo a ciascheduno de gl'infiniti gradi di tardità , e sia il tempo quanto si voglia breve.
SAGR. Sin qui resto capace: tuttavia mi par gran cosa che quella palla d'artiglieria (che tal mi figuro esser il mobile cadente), che pur si vede scendere con tanto precipizio che in manco di dieci battute di polso passerà piú di dugento braccia di altezza, si sia nel suo moto trovata congiunta con sí picciol grado di velocità, che, se avesse continuato di muoversi con quello senza piú accelerarsi, non l'averebbe passata in tutto un giorno.
SALV. Dite pure in tutto un anno, né in dieci, né in mille, sí come io m'ingegnerò di persuadervi, ed anco forse senza vostra contradizione ad alcune assai semplici interrogazioni ch'io vi farò.

Però ditemi se voi avete difficultà nessuna in concedere che quella palla, nello scendere, vadia sempre aquistando maggior impeto e velocità.SAGR. Sono di questo sicurissimo.

SALV. E se io dirò che l'impeto aquistato in qualsivoglia luogo del suo moto sia tanto che basterebbe a ricondurla a quell'altezza donde si partí, me lo concedereste? SAGR. Concedere'lo senza contradizione, tuttavolta che la potesse applicar, senz'esser impedita, tutto il suo impeto in quella sola operazione, di ricondur se medesima, o altro eguale a sé, a quella medesima altezza: come sarebbe se la Terra fusse perforata per il centro, e che, lontano da esso cento o mille braccia, si lasciasse cader la palla; credo sicuramente che ella passerebbe oltre al centro, salendo altrettanto quanto scese: e cosí mi mostra l'esperienza accadere d'un peso pendente da una corda, che rimosso dal perpendicolo, che è il suo stato di quiete, e lasciato poi in libertà, cala verso detto perpendicolo e lo trapassa per altrettanto spazio, o solamente tanto meno quanto il contrasto dell'aria e della corda o di altri accidenti l'impediscono. Mostrami l'istesso l'acqua, che scendendo per un sifone, rimonta altrettanto quanto fu la sua scesa.

figura di sintesi delle parola di sagredo

SALV. Voi perfettamente discorrete. E perch'io so che non avete dubbio in conceder che l'acquisto dell'impeto sia mediante l'allontanamento dal termine donde il mobile si parte, e l'avvicinamento al centro dove tende il suo moto, arete voi difficultà nel concedere che due mobili eguali, ancorché scendenti per diverse linee, senza veruno impedimento, facciano acquisto d'impeti eguali, tuttavolta che l'avvicinamento al centro sia eguale?
SAGR. Non intendo bene il quesito.

Il senso del movimento

SALV. Mi dichiarerò meglio col segnarne un poco di figura. Però noterò questa linea A B parallela all'orizonte, e sopra il punto B drizzerò la perpendicolare B C, e poi congiugnerò questa inclinata C A. Intendendo ora la linea C A esser un piano inclinato, esquisitamente pulito e duro, sopra il quale scenda una palla perfettamente rotonda e di materia durissima, ed una simile scenderne liberamente per la perpendicolare C B, domando (I) se voi concedereste che l'impeto della scendente per il piano C A, giunta che la fusse al termine A, potesse essere eguale all'impeto acquistato dall'altra nel punto B, doppo la scesa per la perpendicolare C B.

figura di galileo integrata

SAGR. Io credo risolutamente di sí, perché in effetto amendue si sono avvicinate al centro egualmente, e, per quello che pur ora ho conceduto, gl'impeti loro sarebbero egualmente bastanti a ricondur loro stesse alla medesima altezza. SALV. Ditemi ora (II) quello che voi credete che facesse quella medesima palla posata sul piano orizontale A B. SAGR. Starebbe ferma, non avendo esso piano veruna inclinazione. SALV. Ma (III)sul piano inclinato C A scenderebbe, ma con moto piú lento che per la perpendicolare C B.

immagine di sintesi

SAGR. Sono stato per risponder risolutamente di sí, parendomi pur necessario che il moto per la perpendicolare C B debba esser piú veloce che per l'inclinata C A: tuttavia, se questo è, come potrà il cadente per l'inclinata, giunto al punto A, aver tanto impeto, cioè tal grado di velocità, quale e quanto il cadente per la perpendicolare avrà nel punto B? Queste due proposizioni par che si contradicano.

SALV. Adunque molto piú vi parrà falso se io dirò che assolutamente le velocità de' cadenti per la perpendicolare e per l'inclinata siano eguali . E pur questa è proposizione verissima; sí come vera è questa ancora che dice che il cadente si muove piú velocemente per la perpendicolare che per la inclinata. SAGR. Queste al mio orecchio suonano proposizioni contradittorie ; ed al vostro, signor Simplicio? SIMP. Ed a me par l'istesso.

SALV. Credo che voi mi burliate, fingendo di non capire quel che voi intendete meglio di me. Però ditemi, signor Simplicio: quando voi v'immaginate un mobile esser piú veloce d'un altro, che concetto vi figurate voi nella mente?
SIMP. Figuromi, l'uno passar nell'istesso tempo maggiore spazio dell'altro, o vero passare spazio eguale, ma in minor tempo. SALV. Benissimo: e per mobili egualmente veloci, che concetto vi figurate?
SIMP. Figuromi che passino spazi eguali in tempi eguali.
SALV. E non altro concetto che questo?
SIMP. Questo mi par che sia la propria definizione de' moti eguali. SAGR. Aggiunghiamoci pure quest'altra di piú: cioè chiamarsi ancora le velocità esser eguali, quando gli spazi passati hanno la medesima proporzione che i tempi ne' quali son passati, e sarà definizione piú universale.
SALV. Cosí è, perché comprende gli spazi eguali passati in tempi eguali, e gl'ineguali ancora, passati in tempi ineguali, ma proporzionali a essi spazi.

Ripigliate ora la medesima figura, ed applicandovi il concetto che vi figurate del moto piú veloce, ditemi perché vi pare che la velocità del cadente per C B sia maggiore della velocità dello scendente per la C A.

SIMP. Parmi, perché nel tempo che 'l cadente passerà tutta la C B, lo scendente passerà nella C A una parte minor della C B.SALV. Cosí sta; e cosí si verifica, il mobile muoversi piú velocemente per la perpendicolare che per l'inclinata. Considerate ora se in questa medesima figura si potesse in qualche modo verificare l'altro concetto, e trovare che i mobili fussero egualmente veloci in amendue le linee C A, C B. SIMP. Io non ci so veder cosa tale, anzi pur mi par contradizione al già detto.

SALV. E voi che dite, signor Sagredo? Io non vorrei già insegnarvi quel che voi medesimi sapete, e quello di che pur ora mi avete arrecato la definizione. SAGR. La definizione che io ho addotta è stata, che i mobili si possan chiamare egualmente veloci quando gli spazi passati da loro hanno la medesima proporzione che i tempi ne' quali gli passano: però a voler che la definizione avesse luogo nel presente caso, bisognerebbe che il tempo della scesa per C A al tempo della caduta per C B avesse la medesima proporzione che la stessa linea C A alla C B ; ma ciò non so io intender che possa essere, tuttavolta che il moto per la C B sia piú veloce che per la C A .

SALV. E pur è forza che voi l'intendiate. Ditemi un poco: questi moti non si vann'eglino continuamente accelerando? SAGR. Vannosi accelerando, ma piú nella perpendicolare che nell'inclinata. SALV. Ma questa accelerazione nella perpendicolare è ella però tale, in comparazione di quella dell'inclinata, che prese due parti eguali in qualsivoglia luogo di esse linee, perpendicolare e inclinata, il moto nella parte della perpendicolare sia sempre piú veloce che nella parte dell'inclinata? SAGR. Signor no, anzi potrò io pigliare uno spazio nell'inclinata, nel quale la velocità sia maggiore assai che in altrettanto spazio preso nella perpendicolare; e questo sarà, se lo spazio nella perpendicolare sarà preso vicino al termine C, e nell'inclinata molto lontano.

SALV. Vedete dunque che la proposizione che dice «Il moto per la perpendicolare è piú veloce che per l'inclinata» non si verifica universalmente se non de i moti che cominciano dal primo termine, cioè dalla quiete; senza la qual condizione la proposizione sarebbe tanto difettosa, che anco la sua contradittoria potrebbe esser vera, cioè che il moto nell'inclinata è piú veloce che nella perpendicolare, perché è vero che nell'inclinata possiamo pigliare uno spazio passato dal mobile in manco tempo che altrettanto spazio passato nella perpendicolare.

Ora, perché il moto nell'inclinata è in alcuni luoghi piú veloce ed in altri meno che nella perpendicolare, adunque in alcuni luoghi dell'inclinata il tempo del moto del mobile al tempo del moto del mobile per alcuni luoghi della perpendicolare avrà maggior proporzione che lo spazio passato allo spazio passato, ed in altri luoghi la proporzione del tempo al tempo sarà minore di quella dello spazio allo spazio. Come, per esempio, partendosi due mobili dalla quiete, cioè dal punto C, uno per la perpendicolare C B e l'altro per l'inclinata C A, nel tempo che nella perpendicolare il mobile avrà passata tutta la C B, l'altro avrà passata la C T, minore; e però il tempo per C T al tempo per C B (che gli è eguale) arà maggior proporzione che la linea T C alla C B, essendo che la medesima alla minore ha maggior proporzione che alla maggiore: e per l'opposito, quando nella C A, prolungata quanto bisognasse, si prendesse una parte eguale alla C B, ma passata in tempo piú breve, il tempo nell'inclinata al tempo nella perpendicolare arebbe proporzione minore che lo spazio allo spazio. Se dunque nell'inclinata e nella perpendicolare possiamo intendere spazi e velocità tali che le proporzioni tra essi spazi siano e minori e maggiori delle proporzioni de' tempi, possiamo ben ragionevolmente concedere che vi sieno anco spazi per i quali i tempi de i movimenti ritengano la medesima proporzione che gli spazi.

SAGR. Già mi sent'io levato lo scrupolo maggiore, e comprendo esser non solo possibile, ma dirò necessario, quello che mi pareva un contradittorio: ma non però intendo per ancora che uno di questi casi possibili o necessari sia questo del quale abbiamo bisogno di presente, sí che vero sia che il tempo della scesa per C A al tempo della caduta per C B abbia la medesima proporzione che la linea C A alla C B, onde e' si possa senza contradizione dire che le velocità per la inclinata C A e per la perpendicolare C B sieno eguali.
SALV.

Contentatevi per ora ch'io v'abbia rimossa l'incredulità...

Lo stesso tempo

Salv. Prima d'ogni altra cosa bisogna avvertire che ciaschedun pendolo ha IL TEMPO DELLE SUE VIBRAZIONI talmente limitato e prefisso , che impossibil cosa è il farlo muover sotto altro periodo che l'unico suo naturale. Prenda pur chi si voglia in mano la corda ond'è attaccato il peso, e tenti quanto gli piace d'accrescergli o scemargli la frequenza delle sue vibrazioni ; sarà fatica buttata in vano: ma ben all'incontro ad un pendolo, ancor che grave e posto in quiete, col solo soffiarvi dentro conferiremo noi moto, e moto anche assai grande col reiterare i soffi, ma sotto 'l tempo che è proprio quel delle sue vibrazioni; che se al primo soffio l'aremo rimosso dal perpendicolo mezzo dito, aggiugnendogli il secondo dopo che, sendo ritornato verso noi, comincerebbe la seconda vibrazione, gli conferiremo nuovo moto, e così successivamente con altri soffi, ma dati a tempo, e non quando il pendolo ci vien incontro (che così gl'impediremmo, e non aiuteremmo, il moto); e seguendo, con molti impulsi gli conferiremo impeto tale, che maggior forza assai che quella d'un soffio ci bisognerà a cessarlo.

Sagr. Ho da fanciullo osservato, con questi impulsi dati a tempo un uomo solo far sonare una grossissima campana, e nel volerla poi fermare, attaccarsi alla corda quattro e sei altri e tutti esser levati in alto, né poter tanti insieme arrestar quell'impeto che un solo con regolati tratti gli aveva conferito. Salv. Esempio che dichiara 'l mio intento non meno acconciamente di quel che questa mia premessa si accomodi a render la ragione del maraviglioso problema della corda della cetera o del cimbalo , che muove e fa realmente sonare quella non solo che all' UNISONO gli è CONCORDE, ma anco all'ottava e alla quinta. Toccata, la corda comincia e continua le sue vibrazioni per tutto 'l tempo che si sente durar la sua risonanza: queste vibrazioni fanno vibrare e tremare l'aria che gli è appresso, i cui tremori e increspamenti si distendono per grande spazio e vanno a urtare in tutte le corde del medesimo strumento, ed anco di altri vicini: la corda che è tesa all'unisono con la tocca, essendo disposta a far le sue vibrazioni sotto IL MEDESIMO TEMPO , comincia al primo impulso a muoversi un poco; e sopraggiugnendogli il secondo, il terzo, il ventesimo e più altri, e tutti ne gli aggiustati e periodici tempi, riceve finalmente il medesimo tremore che la prima tocca, e si vede chiarissimamente andar dilatando le sue vibrazioni giusto allo spazio della sua motrice. Quest'ondeggiamento che si va distendendo per l'aria, muove e fa vibrare non solamente le corde, ma qualsivoglia altro corpo disposto a tremare e vibrarsi sotto QUEL TEMPO della tremante corda .

A guisa di luce

SALVIATI : Votre objection est très pénétrante. Pour y répondre, recourrons à une distinction philosophique, et disons que comprendre se prend en deux sens, intensive ou bien extensive; EXTENSIVE, c'est-à-dire par rapport à la multitude des choses intelligibles — il y en a une infinité — l'entendement humain est comme rien, quand bien même il comprendrait mille propositions, puisque mille, par rapport à l'infini, est comme zéro. Mais si on entend comprendre INTENSIVE , pour autant que ce terme implique intensité, c'est-à-dire perfection, dans la compréhension d'une proposition, je dis que l'INTELLECT HUMAIN en comprend parfaitement certaines et en a une certitude aussi absolue que la nature elle-même peut en avoir ; c'est le cas des sciences mathématiques pures, c'est-à-dire de la géométrie et de l'arithmétique : en ces sciences l'INTELLECT DIVIN peut bien connaître infiniment plus de propositions que l'intellect humain, puisqu'il les connaît toutes , mais à mon sens la connaissance qu'a l'intellect humain du petit nombre de celles qu'il comprend parvient à égaler en certitude objective la connaissance divine, puisqu'elle arrive à en comprendre la nécessité et qu'au-dessus de cela il n'y a rien de plus assuré. SIMPLICIO : Voilà qui est parler avec audace et hardiesse. SALVIATI : Ce sont là propositions communes, sans ombre de témérité ni de hardiesse; elles n'enlèvent rien à la majesté de la sagesse divine , pas plus qu'en déclarant Dieu incapable de faire que ce qui est fait n'ait pas été fait, on ne diminue Sa toute-puissance. Mais je vous soupçonne, signor Simplicio, de tirer ombrage de mes paroles parce que vous y avez vu quelque équivoque. Pour mieux m'expliquer, je dirai que la vérité que nous font connaître les démonstrations mathématiques est celle-là même que connaît la sagesse divine ; je veux bien vous concéder que la façon dont Dieu connaît l'infinité des propositions, alors que nous n'en connaissons qu'un petit nombre, est éminemment plus excellente que la nôtre

:

NOTRE FACON procède par raisonnements [discorsi] et passages de conclusion en conclusion, alors que sa façon est l'intuition simple ; par exemple, pour obtenir la science des propriétés du cercle (et il y en a une infinité), nous commençons par l'une des plus simples, la prenons pour définition, puis, par raisonnement [discorso], passons à une seconde, à une troisième ensuite, à une quatrième encore, etc. ;

L'INTELLCT DIVIN , par la simple appréhension de l'essence du cercle, sans raisonnement qui suppose du temps, comprend l'infinité entière de ces propriétés ; elles sont en effet virtuellement comprises dans les définitions de toutes les choses et finalement, tout en étant en nombre infini, peut-être ne font-elles qu'un dans leur essence et dans l'esprit divin.

Cela n'est pas non plus totalement inconnu à l'intellect humain, mais une brume profonde et dense le lui dissimule ; cette brume se réduit et s'éclaircit partiellement quand nous nous sommes rendus maîtres de quelques conclusions, solidement démontrées et possédées, dont nous disposons si aisément que nous pouvons passer rapidement de l'une à l'autre ; car enfin, dans un triangle, l'égalité du carré opposé à l'angle droit avec les carrés des deux autres côtés, qu'est-ce sinon l'égalité de parallélogrammes ayant des bases communes et tracés entre des parallèles ? Et n'est-ce pas finalement la même chose que l'égalité de deux surfaces qui, appliquées l'une sur l'autre, restent dans les mêmes limites sans se dépasser ? Or ces passages que notre intellect fait dans le temps, en avançant, pas à pas, l'intellect divin, à la façon de la lumière, les parcourt en un instant, ce qui revient à dire qu'il les a toujours tous présents. [cf.Poincaré et Piaget].

J'en conclus que l'entendement divin dépasse infiniment le nôtre par sa façon de comprendre et par la multitude des choses qu'il comprend ; mais je n'abaisse pas le nôtre jusqu'à le tenir pour rien du tout ; et même, quand je considère les nombreuses et merveilleuses choses que les hommes ont comprises, cherchées et réalisées, je con¬nais alors et comprends très clairement que l'esprit humain est l'œuvre de Dieu, l'une de ses plus excellentes.

Vingt petits caractères

SAGREDO : A ce sujet, j'ai maintes fois considéré, moi aussi, la grande pénétration de l'intellect humain. Quand je vois tant de merveilleuses découvertes faites par les hommes, dans les arts comme dans les lettres, et que je réfléchis sur mon savoir, je ne puis promettre de trouver des choses nouvelles, ni même d'apprendre celles qui ont déjà été trouvées ; alors, confondu de stupeur, affligé de désespoir, je me jugerais presque accablé par le malheur. Si je regarde quelque excellente statue, je me dis : quand sauras-tu retirer le superflu d'un morceau de marbre et découvrir la si belle figure qui y était cachée ? Quand sauras-tu mélanger et étendre différentes couleurs sur une toile ou un mur et représenter tous les objets visibles, à la façon d'un Michel-Ange, d'un Raphaël, d'un Titien? Si je regarde ce qu'ont trouvé les hommes pour partager les intervalles en musique, établir des préceptes et des règles dont la mise en œuvre fait les délices de l'oreille, quand cessera ma stupeur ? Que dire de tant d'ins¬truments si divers ? Et la lecture des poètes excellents, de quelles merveilles ne remplitelle pas celui qui prête attention à l'invention des beautés [concettï] et à leur agencement ! Que dire de l'architecture ? De l'art de la navigation ?

Mais, au-delà de toutes ces stupéfiantes inventions, de quelle supériorité d'esprit témoigna celui qui trouva le moyen de communiquer ses pensées les plus cachées à n'importe qui d'autre, fût-il très éloigné dans l'espace et dans le temps ! Parler à ceux qui se trouvent aux Indes, à ceux qui ne sont pas encore nés et ne le seront que dans mille ou dix mille ans ! et avec quelle facilité ! en assemblant diversement vingt petits caractères sur une feuille de papier ! C'est là le sceau de toutes les admirables inventions humaines, ce sera la conclusion de nos discussions d'aujourd'hui ! Les heures les plus chaudes sont passées, je pense que le signor Salviati aura l'envie d'aller en barque profiter de notre fraîcheur ; demain je vous attendrai tous les deux pour continuer les discussions commencées.

"J'ai un petit livre qui contient toutes les sciences"

SIMPLICIO : Aristote ne doit son immense autorité qu'à la force de ses démonstrations et à la profondeur de ses arguments ; encore faut-il le comprendre, et non seulement le comprendre, mais avoir pratiqué ses livres jusqu'à s'en être fait une idée absolument parfaite et avoir toujours à l'esprit tout ce qu'il a dit. Ce n'est pas pour le vulgaire qu'il a écrit, et il ne s'est pas cru obligé d'accumuler ses syllogismes selon la banale méthode ordinaire; se servant au contraire de la méthode perturbée, il met parfois la preuve d'une proposition au milieu de textes qui semblent traiter de tout autre chose : il faut donc posséder en sa totalité cette grande idée, savoir combiner un passage avec un autre, rapprocher un texte d'un autre qui en est très éloigné. Sans aucun doute, seul celui qui aura cette pratique saura tirer de ses livres les démonstrations de tout ce qu'on peut savoir, car tout y est. SAGREDO : Mon cher Simplicio, puisque cela ne vous ennuie pas que les choses soient disséminées çà et là et que vous croyez pouvoir mélanger et combiner différentes parties pour en tirer le suc, comme vous et les autres philosophes habiles avec les textes d'Aristote, je vais, avec les vers de Virgile ou d'Ovide, composer des centons et expliquer grâce à eux toutes les affaires des hommes et tous les secrets de la nature. Mais pourquoi parler de Virgile ou d'un autre poète? J'ai un petit livre bien moins long qu'Aristote ou Ovide, qui contient toutes les sciences et n'exige pas une longue étude pour qu'on s'en forme une idée absolument parfaite : c'est l'alphabet ; qui saura assembler de manière ordonnée voyelles et consonnes y puisera les réponses les plus vraies à toutes les questions, et en tirera les enseignements de toutes les sciences et de tous les arts ; c'est exactement ainsi qu'un peintre, avec les différentes couleurs simples, placées les unes à côté des autres sur sa palette, sait, mêlant un peu de l'une avec un peu de l'autre et encore un peu d'une troisième, figurer des hommes, des plantes, des édifices, des oiseaux, des poissons, en un mot imiter tous les objets visibles ; et pourtant, sur sa palette, il n'y a pas d'yeux, de plumes, d'écaillés, de feuilles ou de pierres. Au contraire même, rien de ce qu'il va imiter, aucune des parties ne doit avoir sa place parmi les couleurs, s'il veut pouvoir tout représenter avec elles ; si par exemple il y avait des plumes, elles ne pourraient servir à peindre que des oiseaux ou des plumets.

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